Giornata tipo di una traduttrice esaurita

Lo confesso, non sono una persona mattiniera, soprattutto in inverno quando alle 7 di mattina tutto è più cupo e deprimente che in un film di Lars Von Trier e poi fa freddo, cavolo se fa freddo. Essenzialmente da dicembre a marzo vado in letargo come l’orso marsicano e in primavera esco dalla mia tana come una cocker in calore. Con tutta la mia buona volontà e il più sano ottimismo (profumo della vita un corno) punto la mia sveglia alle 7:30 e poi la lascio puntualmente suonare a vuoto nell’etere per un’altra mezz’ora. Il bello di essere una lavoratrice autonoma è che puoi fare un po’ come cazzo ti pare, come nella Casa della Libertà.

Toglietemi tutto, ma non il caffè

Quando finalmente accetto a mio malgrado che quello di vincere la lotteria è stato solo un sogno, lascio il tepore del mio letto e mi dirigo verso la cucina in stato catatonico e con una deambulazione da fare invidia al miglior zombie di un film di Romero. Senza la mia iniezione giornaliera di caffeina non riuscirei mai a formulare frasi di senso compiuto. La mia giornata lavorativa ha inizio con il dilemma esistenziale del pigiama: alle basse temperature ogni traduttrice che si rispetti predilige l’uniforme notturna e passa direttamente dall’alcova alla scrivania. A volte penso a quanto doveva essere facile la vita di una donna preistorica. La mattina appena sveglia doveva fare solo tre cose: mettersi la pelliccia di leopardo, prendere la clava e uscire dalla caverna per andare a litigare con il suo fidanzato preistorico. Appena alzata, la donna contemporanea compie almeno 25 azioni: oltre a riatteggiarsi a bipede, si lava, si veste, prepara la colazione, si spazzola i denti, si guarda allo specchio per osservare avvilita la comparsa di una nuova ruga di espressione (accigliata) e così via in monotona successione. La cività moderna ci ha dato un bel da fare e tante complicazioni aggiuntive, senza contare tutte le cose inutili che facciamo di prima mattina davanti al computer, tra cui trascorrere almeno 15 minuti al giorno facendo stalking sui social network, ma questa è un’altra storia. Dopo aver compiuto le mie 25 azioni mattutine sono pronta per iniziare a lavorare. La mia giornata lavorativa è incredibilmente noiosa, praticamente trascorro 8 ore seduta sulla mia sedia digitando parole come un’ossessa e traducendo, nella maggior parte dei casi, roba priva di qualsiasi stimolo intellettuale. A volte, per spezzare la monotonia, mi metto gli auricolari e ascolto “Get Lucky” cinque volte di fila oppure faccio acquisti compulsivi su Internet. Mi pentirò di questa confessione, ma ci sono giorni in cui il massimo dell’eccitazione è aggiudicarmi un’asta su ebay. Per il resto, generalmente dalle 9:30 alle 17:30 mi potreste scambiare per un orsetto lavatore impagliato piazzato davanti a uno schermo luminoso, il mio corpo sembra in uno stato di paralisi semitotale per 8 ore di fila, se non fosse per il movimento impercettibile delle falangi sulla tastiera e per i miei pellegrinaggi in bagno. Vi capita mai di non trovare quella parola o quell’aggettivo ad affetto che vi serve e cadere vittima del blocco del traduttore? Il luogo magico dove mi rifugio in cerca di ispirazione è il cesso. È qui che trovo l’ispirazione per le traduzioni più creative, tra i rotoli di cartaigienica lunga, resistente e morbida e lo sciacquone. Chiusa la parentesi cesso, interrompo la mia paralisi prolungata anche per soddisfare il mio fabbisogno alimentare. La fame vien traducendo e allo scoccare delle 13 avverto che la mia produttività comincia a perdere colpi e mi trascino in cucina per saccheggiare la dispensa. E poi ci sono anche giorni in cui mi autocorrompo promettendo a me stessa un cucchiaio di quella buona crema ciocco-nocciolosa se traduco almeno 400 parole in un’ora. Noi traduttrici autonome avremmo pur diritto ad autogratificarci in qualche modo, o no? Ho già detto che mi sento sola? Sì, a volte mi sento molto sola. Trascorro intere giornate seduta nella mia stanza da letto-ufficio senza parlare con anima viva per lunghe interminabili ore, tranne che con le mie orchidee, che però non controbattono mai. Ma per fortuna c’è Twitter, dove scrivi una minchiata di 140 caratteri e ti rispondono 250 persone, in qualsiasi angolo del mondo, da Rapallo a Timbuctù. E poi ci sono anche i miei vicini a farmi compagnia, metaforicamente parlando. Alla porta accanto vive una coppia di indiani che sta ristrutturando la casa da più di due anni ormai. Quando non trapanano la parete, guardano film di Bollywood a tutto volume. Al piano di sotto, invece, vive un vecchietto tanto mingherlino quanto arrapato, penso che sia ancora illibato alla veneranda età di 70 anni perché flirta spudoratamente con ogni creatura che secerne feromoni femminili. Ogni volta che suona il mio campanello, faccio finta di avere una traduzione urgente e improrogabile. È impossibile non avvertire la fastidiosa presenza dei miei vicini, praticamente sono i miei compagni di lavoro, insopportabili quanto i tuoi colleghi d’ufficio con cui sei costretto a condividere la scrivania e la pausa caffè. Quando si fa sera e ho deciso che il mio contributo giornaliero alla quantità di informazioni inutili tradotte nel mondo è stato più che sufficiente, mi guardo inorridita allo specchio e capisco che è giunto il momento di scrostarmi il pigiama di dosso per evitare che il mio fidanzato perda completamente l’interesse sessuale nella mia persona. Non ha ancora varcato la soglia di casa, che gli corro incontro scodinzolante, abbagliandogli in faccia frasi sconnesse. E quando mi chiede come è stata la mia giornata, gli rispondo “Niente di che, sono stata seduta qui tutto il giorno, i vicini hanno visto l’ultimo colossal di Bollywood e ho un nuovo follower su Twitter“.

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